Thomas Eakins, Max Schmitt in a Single Scull, 1871, Penn Museum of Art, Philadelphia.
Siamo arrivati a un punto in cui dimostrare sembra essere diventato sinonimo di felicità.
È un continuo tentativo di apparire più belli, più forti, più attraenti, più giovani, più bravi, più interessanti, più felici…
Ci sembra che primeggiare ci possa dare più valore.
E, in effetti, quel momento in cui ci mostriamo e riceviamo approvazione può darci una sensazione piacevole, una piccola scarica di soddisfazione.
Ma si tratta di un effetto breve e passeggero.
La ricerca psicologica parla di adattamento edonico (Lyubomirsky, 2011): le gratificazioni esterne ci offrono un benessere momentaneo, ma col tempo perdono forza, lasciandoci spesso con lo stesso senso di vuoto di prima.
Non è sbagliato desiderare di mostrarsi o ricevere riconoscimento, ma è importante comprendere che non possiamo farci sostenere troppo da questo.
Quando la nostra autostima finisce per dipendere o per essere eccessivamente influenzata dallo sguardo degli altri, rischiamo di costruire un equilibrio fragile, che si spezza facilmente.
Quando iniziamo a misurarci troppo con tutto e con tutti, diventa come se gareggiassimo costantemente con il mondo, come se vivessimo sempre contro tutti.
Giorno dopo giorno entriamo in una gara continua: a scuola, sul lavoro, nelle relazioni, ovunque.
E più gareggiamo contro tutti, più (senza rendercene conto) ci allontaniamo dagli altri.
È un circolo vizioso: combattiamo da soli per vincere sugli altri, e più vinciamo da soli, più restiamo soli.
Ma quando restiamo soli, con il tempo, quella solitudine diventa una grande sofferenza.
Si arriva a una solitudine che fa male, e lo vediamo ogni giorno: tante persone si sentono sole, svuotate, disconnesse.
Non è certo l’unica forma di sofferenza, ma è una di quelle silenziose e diffuse, alimentata proprio da questo bisogno continuo di dimostrare, apparire, competere.
Una sofferenza che cresce nel tempo, perché più ci allontaniamo dagli altri, più diventa difficile ritrovare fiducia e vicinanza.
A volte, nel mio lavoro, mi capita di chiedere alle persone quale sia la cosa che più le spaventa.
Nella maggior parte dei casi la risposta è sempre la stessa: “La solitudine.”
E questo mi colpisce ogni volta, perché mentre passiamo la vita a dimostrare di essere forti, autonomi, capaci, alla fine ci scopriamo fragili proprio su ciò che è più semplice e umano: il bisogno di sentirci vicini, visti, compresi.
Sono le cose più semplici, quelle che spesso diamo per scontate, a rivelarsi le più indispensabili: avvicinarsi, cooperare, condividere, fidarsi, sostenersi reciprocamente; sono questi i segreti di un benessere duraturo e profondo, di un vivere più sereno.
Dovremmo ricordarci sempre che il benessere non è individuale. Cresce solo quando lo condividiamo, quando ci sosteniamo, quando impariamo di nuovo a fidarci.
E continuando a vivere nella direzione dell’“io contro tutti” (a dimostrare e a primeggiare) allora rischiamo di sentirci sempre più soli.
Sono molti gli studi scientifici a confermare che la felicità e la salute mentale non dipendono dal successo individuale, ma dalla qualità delle relazioni e dal sostegno reciproco.
Lo studio di Harvard sullo sviluppo adulto, durato oltre ottant’anni, ha dimostrato che le persone più felici e in salute non sono quelle che hanno avuto più successo o denaro, ma quelle che hanno costruito relazioni solide e di fiducia (Waldinger & Schulz, 2015).
Una vasta meta-analisi di Holt-Lunstad et al. (2010) ha rilevato che chi possiede forti legami sociali ha una probabilità di sopravvivenza superiore del 50% rispetto a chi vive in isolamento, dimostrando che la solitudine danneggia la salute tanto quanto il fumo o l’obesità.
Il sociologo Robert Putnam (2000) ha documentato come la perdita di fiducia e coesione nelle comunità aumenti isolamento, ansia e infelicità, sottolineando l’importanza del senso di appartenenza e partecipazione.
Nella psicologia positiva, Martin Seligman (2011) identifica le relazioni positive come uno dei cinque pilastri fondamentali del benessere duraturo, insieme a emozioni positive, coinvolgimento, significato e realizzazione.
Infine, Richard Wilkinson e Kate Pickett (2009) hanno mostrato che le società basate sulla fiducia e sull’uguaglianza registrano livelli più alti di felicità e salute mentale rispetto a quelle fondate sulla competizione e sulla disuguaglianza
Forse dovremmo fermarci un momento e guardare bene dove stiamo andando perché a forza di voler dimostrare, abbiamo smesso di sentire davvero noi stessi; e nel tentativo di essere visti, ci stiamo allontanando da tutti.
Viviamo in un tempo in cui tutto corre e tutto si misura, ma questo non vale per le relazioni; quelle si costruiscono piano, nella fiducia, nella presenza, nella capacità di esserci davvero.
Possiamo anche provare a sembrare forti o a far credere di non aver bisogno di nessuno, ma arriviamo tutti allo stesso punto: abbiamo bisogno di contatto umano, di confronto, di sentirci al sicuro, di sentirci sostenuti.
Abbiamo bisogno degli altri, perché siamo e saremo sempre animali sociali.
E quando smettiamo di gareggiare e torniamo ad affidarci, scopriamo la vera serenità.
Perché alla fine non serve vincere, ma appartenere: nessuno vince davvero da solo.
Lyubomirsky, S. (2011). Why Happiness Doesn’t Last: The Science of Hedonic Adaptation. Greater Good Science Center, University of California, Berkeley.
Waldinger, R. J., & Schulz, M. S. (2015). What Makes a Good Life? Lessons from the Longest Study on Happiness. Harvard Study of Adult Development.
Holt-Lunstad, J., Smith, T. B., & Layton, J. B. (2010). Social Relationships and Mortality Risk: A Meta-Analytic Review. PLoS Medicine.
Putnam, R. D. (2000). Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community. Simon & Schuster.
Seligman, M. E. P. (2011). Flourish: A Visionary New Understanding of Happiness and Well-Being. Free Press.
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